martedì 15 aprile 2008

La cacca di Emi

Quasi sette anni. Prima elementare e tanta, tanta paura. Ricordo la disposizione dei banchi – troppo alti –: tre file da due per una trentina di visini spauriti, asfittiche femminucce dietro improbabili fiocchi azzurri; maschietti, fiocco-sì-fiocco-no, casacca grigio-azzurrina, chi-sì-chi-no.
Due anni dopo ci avrebbero trattati un po’ meglio, disposizione dei banchi a ferro di cavallo o a gruppi di sei, in ossequio alla moda parapsicopedagogica del momento.
Credo che i precetti della scolarizzazione allora imponessero quel pizzico di sano terrorismo psicologico, mortificante il “giusto”, capace di farci apprezzare come miracolose concessioni il tristissimo gioco del silenzio oppure il disegno a piacere, dopo tre ore e mezza di dettati e numeri in colore.

Emi, Emanuele all’anagrafe, era testimone di Geova. Viveva vicino al mio banco. Cicciottello, con la testa bionda e a forma d’anguria, a sei anni andava già profetizzando cataclismi e stragi di ogni tipo. Ma era il suo paradiso a farmi paura. Tigri, criceti, agnelli, coccodrilli, serpenti e colibrì, tutti insieme sorridenti. Erano veramente troppo per me. E poi quel Cristo su un palo e non crocifisso, perché la croce era un assurdo cattolico.
“I chiodi piantati nelle mani e nei piedi… non funziona. Finisci a faccia avanti con le mani stracciate”, mi spiegava Emi con accanimento farisaico. E mi convinceva pure, io che credevo alla befana e a babbo natale.
Emi era implacabile come il Deuteronomio. Giusto come Salomone. Mite come il Dalai Lama. Ed io lo temevo un po’, temevo i suoi giudizi, le sue sentenze.
Di notte lo sognavo ben appostato sulla torre di guardia – costruzione in pietra tirata su dai parenti di Emi, come nel gioco del lego – di vedetta e vigilissimo. Non mi vergogno di aver anche pregato “doppio” per un po’, la sera a letto. Un Padre Nostro e un “grazie Geova”, perché non si sa mai.
E quando Emi partiva con i suoi accesissimi sermoni, lancia in resta contro tutta la classe, io cercavo di conciliare le posizioni di ognuno, ben attento a non contraddire il gran sacerdote. Temevo, da un momento all’altro, l’anatema.

Un giorno Emi chiese di andare al gabinetto. Una maestra molto stanca e distratta lo lasciò fare; tanto affaticata da dimenticarsi di lui. Passarono infatti cinque minuti: di Emi nessuna notizia e nessuno se ne preoccupava.
Chiesi allora di uscire anch’io e la maestra mi disse di sì. Entrato nel cesso sentii una vocina fioca fioca chiamarmi.
“Che vai dalla bidella a prendermi della carta igienica?”, mi chiedeva Emi, pantaloni e slip arrotolati sulle caviglie e merda dappertutto.
Tornai subito in classe terrorizzato. Senza passare dalla bidella.
Emi rientrò dopo un po’. Non ebbi il coraggio di guardarlo in faccia. Né lui me.
Dio era morto.

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