venerdì 6 marzo 2009

Dialogo probabile (2)

« Il nostro è uno sport povero, fatto di sacrifici, rinunce, mica quattro calci a un pallone… ».
« E no! Stavolta ti stoppo. Finiamola co’ ‘sta storia dei quattro calci ad un pallone e giù euro a valanga. Basta. Sembriamo masochisti, sembriamo. Portiamo i nostri ragazzi a fare atletica perché è una scelta buona; ci piace. Ci gratifica pure. La ricchezza dell’atletica è nei valori che… »
« Beh, mo’ ti stoppo io. Di quali valori vogliamo parlare? Vogliamo discutere del doping per qualche migliaio di euro? Vogliamo parlare dei sogni di gloria di certi allenatori, e/o di certi genitori? Vogliamo… »
« Frena frena. Quello che accade sporadicamente in atletica nel calcio è prassi ».
« Ne sei sicuro? E poi, credimi, un maratoneta che si dopa non è meno colpevole di un Maradona positivo ai Mondiali del… »
« Ecco qua! Adesso mi difendi pure Maradona? ».
« Non capisci. Non mi fai neppure finire. Il calcio, il suo teatro… un bersaglio troppo facile. Ma sarai mica uno di quelli che, a chiacchiere, straparlano dei valori morali dell’atletica, e poi sotto sotto (ma neanche tanto) fanno carte false per leggere il nome del figlio in cronaca sportiva? Guarda che il doping è un alibi per molti di noi. Sistemare un figlio dentro un gruppo sportivo militare, avere questo obiettivo fortissimo dentro al cuore, intendo, non lo trovo meno aberrante di una ‘scorciatoia’ a base di efedrina ».

A questo punto gli animi sono accesi abbastanza da alterare il volume della voce dei due contendenti. La parola si fa grido roco, l’opinione sberleffo. I valori dello sport, reali o presunti, adesso sono davvero altrove.
Ma qualcosa accade. Un terzo personaggio si aggiunge ai due: « Sempre a dire cazzate voi? Piuttosto, fate cambiare i ragazzi così torniamo a casa per l’arrivo di tappa. Voglio vedere che riesce a combinare Armstrong, adesso… ».

giovedì 24 aprile 2008

Metafore di un viaggio

Quando l’autobus della linea Pescara-Penne, sbuffando e starnutendo, da Remartello all’improvviso svolta per Loreto Aprutino, lascio una vita per prenderne un’altra.
Anche il cellulare inizia a darmi qualche problema; il segnale si fa debole e la segreteria inizia a caricarsi di sms (“Ho chiamato alle…”) che leggerò forse al ritorno, tra dieci ore.
Un insegnante elementare confuso tra altri insegnanti, studenti ed operai, lascia “casina bella” alle sette e un quarto di mattina per farvi ritorno alle sette di sera; riunioni, programmazioni, commissioni, collegi docenti e, talvolta, lezioni in classe coi bambini.
– Buongiorno professo’, freddo stamattina? Che dice, vuole nevica’? –. La funzione fàtica del linguaggio. Nelle parole dell’autista c’è qualcosa di più. È il suo benvenuto, la gioia contenuta e sottile per la conferma di una rassicurante presenza, un altro compagno di viaggio conosciuto e che ti riconosce; l’autista non è più lo “sballottatore” di anime infreddolite ed assonnate. È quello simpatico e disponibile, uno dei pochi a farti scendere tra le fermate “ufficiali” (– … qui non si potrebbe, ma se non ci si viene incontro, eh professo’? –).
L’autobus presto comincia a parlare di melanzane grigliate e mozzarelle “scippate” alle dieci e mezza, di figli e mariti dispersi da tempo, di governi sempre più ladri e di scioperi che pesano più dell’ICI. L’autobus parla strani dialetti che si intrecciano, suoni d’Africa e di Albania richiamati da un cellulare, muezzin digitale e sconsacrato dalla voce metallica e assordante.
Il cinese sta in silenzio. Non potrebbe fare altrimenti. Fa il mercato del giovedì a Loreto e impiega qualche minuto prima di entrare col suo carico di necessario ciarpame a pile e a molla; un borsone di circa quaranta chili che al ritorno ne farà cinquanta. Ma a Loreto vende o compra?
Gli anziani stanno come cariatidi, occupano sempre lo stesso posto, da decenni; dondolando e smadonnando in aramaico aprutino guadagnano l’uscita avviandosi tre fermate prima. Di una vecchietta vedo soltanto la stampella. La scaglia all’interno dell’autobus con la precisione di un cecchino. A fatica, ma con decisione, scala il “massiccio” di ferro. Scenderà quattrocento metri più avanti, dopo aver “rilanciato” la stampella all’esterno.
Il “viaggio” dal sedile all’uscita per alcuni di loro è pieno di insidie, ma l’esperienza non è acqua fresca.
– Giuvino’, purteme la bborsa fin’assotte, pippiacere. La madonna tibbenedice –, e tu l’aiuti. Ho il sospetto però che la vecchina abbia stipulato un patto col demonio in persona: la borsa pesa il doppio di quella del cinese.
– Ddu’ pruvviste pe’ fijeme, fa lu fredde –, si giustifica. Sono venti litri d’olio, venti di vino e non voglio pensare al resto.
Non sono tutti simpatici gli anziani; ma senza di loro l’autobus non sarebbe la stessa cosa. Lo sanno bene gli autisti, impegnati in manovre impossibili sui letali tornanti di Collatuccio.
– Vado a Penne, famme lu bijette giuvino’! –. Sì, loro il biglietto lo fanno sull’autobus, costringendo i malcapitati in prodezze circensi per un resto che attendono fino all’ultimo centesimo. La mano, tesa verso il biglietto, è larga come una vanga e nodosa come un ulivo. Gli spiccioli spesso volano tutt’intorno, come le imprecazioni; incomprensibili ed efficacissime maledizioni che temo più del conguaglio fiscale di febbraio. Le monetine che non finiscono a terra si perdono per sempre tra i solchi e i nodi di quello strano albero antropomorfo.
Ogni anziano di quest’autobus è un albero. Una volta scesi vanno a piantarsi in qualche raro fazzoletto di terra buona, a ricordare i cicli del sole e della luna.
Qualcuno, fortunato, finisce lì la sua corsa.

Studenti disorientati e tatuati, salgono e scendono come vitelli al mattatoio. Qualcuno manda a memoria due formule di fisica, qualcun altro “ripassa” i Metallica con gli auricolari del lettore mp3 siliconati dal gel che cola copioso da capelli acuminati e variopinti.
Un bimbo di diciassette anni riprende il sonno da poco interrotto appoggiando la testa sul petto della fidanzata. Lei dice che non ne può più di lui e di quelli come lui:
– Mi dà il tormento, che palle! Dove sei, cosa fai, con chi stai, mi vuoi bene, ti presento i miei… Io devo ballare, mi devo svagare, devo vedere gente… –, questa in sintesi la traduzione di un pensiero abbastanza contorto, espresso in una misteriosa lingua tonale, farcita a gesti ed attributi maschili citati a ritmo regolare.
Il bimbo di diciassette anni sorride nel sonno; la mamma è dura e severa, ma è sempre la mamma.

Il controllore è buono e cattivo. Quello buono lascia riposare l’operaio sfinito dalla stanchezza del giorno prima. Non gli chiede il biglietto. Lascia riposare anche chi finge il riposo per non pagare la multa. Saluta con un sorriso rassicurante, si appoggia al gabbiotto del conducente e lo distrae fino al capolinea.
Quello cattivo guarda tutti dritto negli occhi. Potrebbe fare le multe già dal predellino. Preferisce studenti e senegalesi.
Un’epica tenzone si trascina da tempo tra lui ed un ventenne di colore. Il controllore, appena salito, ha già pollice, indice e mignolo sul taccuino; il ragazzo, che dal fondo dell’autobus con un balzo ha guadagnato la porta centrale, con l’indice ha già suonato il campanello da un pezzo.
I due si guardano negli occhi come Clint Eastwood e Lee Van Cleef ne “Il buono, il brutto, il cattivo”.
– Dove vai, amico? Documenti e permesso di soggiorno, che mo’ t’aggiusto io! – lo apostrofa il controllore con un ghigno.
– Vieni vieni, ti sto aspettando, non mi muovo da qui –, fa il giovane con malcelato terrore. La multa arriva come una benedizione alla fine di una serie estenuante di: “dai amico, lo faccio adesso”, “stavo scherzando; non si può nemmeno scherzare”, “io non mi faccio prendere in giro da te e da quelli come te”, “il permesso di soggiorno deve essere in originale e non fotocopiato”, “stavolta t’è andata bene, la prossima chiamo la polizia”, eccetera eccetera. Il controllore finisce la sua corsa parlando al conducente di gite a Lourdes e S. Giovanni Rotondo, di straordinari mai pagati, eccetera eccetera.

L’autobus alle sette di sera è vuoto. Montesilvano sa già di Pescara. Molta dell’umanità dell’andata ha viaggiato con me al ritorno. Nuovo proletario senza coscienza di classe riprendo le mie quattro cose prima di scendere.
Il cielo ha la stessa luce di questa mattina.

martedì 15 aprile 2008

La cacca di Emi

Quasi sette anni. Prima elementare e tanta, tanta paura. Ricordo la disposizione dei banchi – troppo alti –: tre file da due per una trentina di visini spauriti, asfittiche femminucce dietro improbabili fiocchi azzurri; maschietti, fiocco-sì-fiocco-no, casacca grigio-azzurrina, chi-sì-chi-no.
Due anni dopo ci avrebbero trattati un po’ meglio, disposizione dei banchi a ferro di cavallo o a gruppi di sei, in ossequio alla moda parapsicopedagogica del momento.
Credo che i precetti della scolarizzazione allora imponessero quel pizzico di sano terrorismo psicologico, mortificante il “giusto”, capace di farci apprezzare come miracolose concessioni il tristissimo gioco del silenzio oppure il disegno a piacere, dopo tre ore e mezza di dettati e numeri in colore.

Emi, Emanuele all’anagrafe, era testimone di Geova. Viveva vicino al mio banco. Cicciottello, con la testa bionda e a forma d’anguria, a sei anni andava già profetizzando cataclismi e stragi di ogni tipo. Ma era il suo paradiso a farmi paura. Tigri, criceti, agnelli, coccodrilli, serpenti e colibrì, tutti insieme sorridenti. Erano veramente troppo per me. E poi quel Cristo su un palo e non crocifisso, perché la croce era un assurdo cattolico.
“I chiodi piantati nelle mani e nei piedi… non funziona. Finisci a faccia avanti con le mani stracciate”, mi spiegava Emi con accanimento farisaico. E mi convinceva pure, io che credevo alla befana e a babbo natale.
Emi era implacabile come il Deuteronomio. Giusto come Salomone. Mite come il Dalai Lama. Ed io lo temevo un po’, temevo i suoi giudizi, le sue sentenze.
Di notte lo sognavo ben appostato sulla torre di guardia – costruzione in pietra tirata su dai parenti di Emi, come nel gioco del lego – di vedetta e vigilissimo. Non mi vergogno di aver anche pregato “doppio” per un po’, la sera a letto. Un Padre Nostro e un “grazie Geova”, perché non si sa mai.
E quando Emi partiva con i suoi accesissimi sermoni, lancia in resta contro tutta la classe, io cercavo di conciliare le posizioni di ognuno, ben attento a non contraddire il gran sacerdote. Temevo, da un momento all’altro, l’anatema.

Un giorno Emi chiese di andare al gabinetto. Una maestra molto stanca e distratta lo lasciò fare; tanto affaticata da dimenticarsi di lui. Passarono infatti cinque minuti: di Emi nessuna notizia e nessuno se ne preoccupava.
Chiesi allora di uscire anch’io e la maestra mi disse di sì. Entrato nel cesso sentii una vocina fioca fioca chiamarmi.
“Che vai dalla bidella a prendermi della carta igienica?”, mi chiedeva Emi, pantaloni e slip arrotolati sulle caviglie e merda dappertutto.
Tornai subito in classe terrorizzato. Senza passare dalla bidella.
Emi rientrò dopo un po’. Non ebbi il coraggio di guardarlo in faccia. Né lui me.
Dio era morto.

Buona Pasqua

La stanza è in penombra. Un giovanotto dai trenta passati fa avanti e indietro col cellulare incollato sull’orecchio.

“Ciao ma’, buona Pasqua...”
“Buona Pasqua un corno, non mi hai ancora restituito le chiavi. Maledizione a me che ti sto ancora dietro! Devi finirla! Sei stato praticamente due giorni fuori, senza neanche avvisarci e adesso gli auguri...”
“Dai ma’, che dici. Ti fa gli auguri pure Franca. Sono qui da lei. Pensavamo di fare pasquetta in montagna, ecco perché non ti ho ridato le chiavi. Stiamo via un giorno e poi torniamo”.
“Vedi come fai, non ho ragione a stare nera? Sei come tuo padre, uguale. Solo che lui a trentasei anni aveva già casa e tre figli. Pure grandicelli. Mi farai crepare Anto’, mi farai...”
“Ecco, lo sapevo. Di nuovo la storia del lavoro, della famiglia, dei vostri sacrifici... ne ho piene le scatole. Il lavoro è quello che è, lo sai. E poi la laurea in legge la volevi tu, io avevo un futuro nel calcio. Per dar retta alla zia Carmela tu e papà mi avete tarpato le ali...”
“Senti Anto’, parliamoci chiaro, tu adesso mi riporti le chiavi e per pasquetta ti arrangi; fai come ho fatto io tutti questi anni, a schiattare dietro a zia Carmela, te e i tuoi fratelli. Non ricordo un mezzo pomeriggio libero, altro che pasquetta in montagna.”

Antonio è nervoso, vorrebbe urlare qualcosa e fa circoli intorno al divano su cui è mollemente seduta Franca. Lei invece sembra assente: cellulare in mano, spara sms chissà a chi, con movimenti rapidissimi ed automatici delle dita. Franca è una bella ragazza mora dai capelli lunghi e lisci, minuta e sui trenta pure lei. Bella come ce ne sono migliaia per il centro al sabato sera.

“Ti prego ma’, facciamo così: passo pasquetta in montagna ma poi torno subito e ti rendo le chiavi. Vabbe’?”
“Vaaabbe’. Se hai bisogno di due camicie te le stiro. Ricordati di passare a prenderle però”.
“Ok. Allora vengo tra un po’ con Franca, così gli auguri ce li facciamo di persona. Dai, ci vediamo.”
“Ci vediamo.”
Click.

lunedì 24 marzo 2008

Giuseppe Bowie

Giuseppe, prima elementare e sette anni compiuti da poco.
È da un po' che cerco di capire chi mi ricorda, la somiglianza con chissà quale bambino di chissà quale altro plesso o anno scolastico.
Mi succede sempre più spesso, osservando un alunno, di trovare in un'espressione del viso, in un sorriso, in un ciuffo impertinente, in uno sguardo furbetto e renitente ai compiti a casa, il ricordo vivissimo di un altro bambino vissuto dalle mie parti tempo addietro.
Giuseppe va a sedicimila giri al minuto, da un capo all'altro dell'aula; i capelli biondi, lunghetti e sconvolti, quasi cotonati. Una sorta di nuvola biondo-rossiccia cogli occhi di ghiaccio e spiritati, i pantaloni nei doposcì - onnipresenti nel suo look da almeno un paio di mesi - come una specie di alieno kitsch.
Ricorda terribilmente qualcuno, ma non so chi. Se credessi nella fisiognomica magari potrei trovare una qualche risposta, decantando il senso di improbabili analogie, fino ad approdare al gioco di libere e aberranti associazioni: l'onorevole Mussi con Himmler; Paolo VI con Eichmann...
Ma Giuseppe? Chi è Giuseppe?

L'altra sera guardavo-ascoltavo un dvd di David Bowie, una raccolta di tutti i suoi successi , dagli esordi agli ultimi ipernarcissici videoclip. Proprio davanti ad uno di questi, datato 1973, ho avuto un sussulto: ecco chi è Giuseppe! È David Bowie. Quello della prima metamorfosi però. Ziggy Stardust, l'alieno delle ballate spaziali (non balle), di "Life on Mars?", di "Starman".
Tornato a scuola cerco Giuseppe tra gli altri bambini. L'emozione è tanta e non so perché.
Ma Giuseppe non c'é.
La mia collega di lingua italiana, il volto uno straccio, mi dice che è in rianimazione nel locale nosocomio. Sembra sia entrato in coma la sera precedente, lamentando dapprima un forte mal di testa e poi... buio.
Le notizie tra noi colleghi si accavallano distorte e vieppiù assurde, grottesche.
Qualcuno, più realisticamente, pensa a crisi epilettiche tenute debitamente nascoste dai genitori del bambino.

Giuseppe torna a scuola, vispo più di prima, quattro settimane dopo. È sotto terapia farmacologica, sedato, anche se a me, data la vivacità, non sembra.
Il mistero del suo problema resta e, probabilmente, non verrà mai risolto. Io però amo pensare al tunnel della cocaina e ad un soggiorno "disintossicante", di quattro settimane, presso una clinica per vip.